LA DINAMITE NASCOSTA

Jack London
arteideologia raccolta supplementi
nomade n.11 dicembre 2015
COME STANNO LE COSE
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Da quando vivo, ho avuto sempre la sensazione dell'esistenza di altri tempi e di altri luoghi. Ho sempre avvertito l'esistenza di altre persone nel mio essere. Oh, anche a voi accade la stessa cosa, credetemi, miei probabili lettori. Provatevi a riandare col pensiero ai tempi della fanciullezza e questa coscienza, della quale vi parlo, vi tornerà alla mente come una esperienza della vostra infanzia. Allora non eravate ancora formati, cristallizzati. Eravate plastici, il vostro spirito era in istato di evoluzione, la vostra coscienza e la vostra identità subivano il processo dello sviluppo e, ahimé, andavano necessariamente soggette ad una graduale dimenticanza.
Avete dimenticato molto, lettori. Tuttavia, nel leggere queste righe, vi riappariranno, confuse e nebulose, visioni di altri tempi e di altri luoghi, ove si sono indugiati i vostri occhi infantili. Oggi vi sembrano dei sogni; tuttavia, ammesso che si tratti di sogni, da dove traggono essi la loro sostanza? I nostri sogni rappresentano un grottesco compendio di cose che conosciamo. Anche i più strampalati hanno una ragion d'essere, tratta dalla nostra esperienza. Da ragazzi, da bambini, avete sognato di raggiungere le più grandi altezze; avete sognato di volare per l'aria come gli animali che nell'aria vivono: foste tormentati dalle visioni di ragni striscianti e di creature ripugnanti, fornite di molte gambe; nei vostri incubi avete udito delle voci, avete visto dei volti stranamente familiari ed avete colto lo spettacolo di aurore e di tramonti tali che, riandando al passato, non vi pare di averne mai scorti di simili.
Benissimo. Questi barlumi infantili sono indizio di un'altra esistenza, di un altro mondo: di cose che non avete mai visto su questa terra ed in questa vostra vita. Che allora? Altre vite? Altri mondi? Forse, quando sarete giunti in capo a questo libro, potrete rispondere alle perplesse questioni; che io vi avrò proposto e che voi stessi, ancor prima di leggermi, vi siete certamente poste davanti alla mente.

Wordsworth sapeva. Non era né un veggente né un profeta, ma soltanto un uomo comune, come potreste essere voi o qualunque altro. Quello che sapeva lui, lo sapete voi e lo sanno tutti. Ma egli ebbe il merito di dirlo, nel più acconcio dei modi, in quel suo passo che così principia: « Non in assoluta nudità, né in completo oblio... ».

Ah, davvero le ombre del carcere si addensano intorno a noi, ancor bambini, così da farci troppo presto dimenticare ogni cosa. Pur tuttavia, quando appena eravamo nati, ricordammo altri tempi ed altri luoghi. Eravamo ancora dei bambini inermi, in fasce, o degli esseri che si trascinavano sul pavimento a guisa di quadrupedi; ciò nonostante sognavamo fantastiche fughe attraverso lo spazio. Sì; e soffrimmo il tormento e la tortura di incubi orripilanti, nei quali si muovevano delle cose vaghe e mostruose. Nata con noi, ancora prima dell'esperienza, esisteva già la paura, il ricordo della paura; e il ricordo è esperienza.

Quanto a me, ancora prima di apprendere ad articolare le parole, quando ancora esprimevo con dei rumori i bisogni più elementari, avevo già la coscienza di essere stato un vagabondo delle stelle. Sì, proprio io, che ancora non sapevo pronunciare la parola «Re», ricordavo di essere stato una volta figlio di un re. Ancora più: ricordavo di essere state una volta uno schiavo, figlio di uno schiavo, e di aver portato un collare di ferro intorno al collo.
Ma v'è ancora di più. All'età di tre, quattro e cinque anni, non ero ancora IO. Non ero che una cosa in istato di sviluppo, un flusso spirituale che non aveva ancora assunto lo stato di solidità, nella materia della mia carne, nel tempo e nello spazio. In quel periodo, nell'interno del mio essere, lottavano tutti quegli elementi che erano stati in me, nel corso di altre diecimila vite anteriori, e mi tormentavano lo spirito nello sforzo di incorporarsi in me e di creare la mia individualità.

Tutto questo può sembrare stupido, non e vero? Lettore, io spero di compiere, con te, un viaggio attraverso il tempo e lo spazio, per virtù di questo libro; ebbene, ricorda, o lettore, che a questi argomenti ho pensato molto, che per lunghi anni, nel corso di notti piene di visioni sanguinarie, nelle quali la tenebra faceva sudar freddo con i terrori di cose tenebrose, sono stato solo con i miei molti « me stesso », a consultare ed a completare questi « me stesso ». Son passato attraverso gli inferni di tutte le esistenze, per potervi recare delle nozioni, alla conoscenza delle quali potrete partecipare con me, spendendo qualche ora nella lettura di questo libro.

Dicevo dunque, tornando indietro di un passo, che all'età di tre, quattro e cinque anni, io non ero ancora IO. Ero già qualcosa, quando la carne del corpo modellò la mia personalità; e tutto il passato, possente ed indistruttibile, lavorava nel crogiolo del mio essere, per determinare quale forma esso avrebbe dovuto prendere. La voce che di notte gridava, piangendo pel terrore di cose conosciute, che pur tuttavia non conoscevo e non potevo logicamente conoscere, non era la mia voce. Lo stesso dicasi delle mie collere infantili, dei miei amori e delle mie risa. Erano altre voci, quelle che gridavano attraverso il suono della mia voce; voci di donne e di uomini di altri tempi, appartenenti ad una fantastica schiera di progenitori. E nel ruggito, col quale si esprimevano le mie collere, v'era qualcosa del ruggito di altre belve, più antiche delle montagne, e le urla incomposte, che davano sfogo ai miei isterismi infantili, risuonavano come l'eco delle stupide e insensate urla di bestie preadamitiche, ove tremava la rabbia sanguinaria.

Ecco svelato il segreto. Rabbia sanguinaria ! Ed è proprio essa che mi ha perduto, che ha rovinato la mia presente esistenza. E’ per cagion sua che, fra pochi giorni, sarò condotto da questa cella su di un alto palco dalle instabili tavole e sarò liberato dalle afflizioni del mondo, col mezzo di una corda ben tesa: lassù mi appiccheranno. La rabbia sanguinaria mi ha sempre rovinato, in tutte le altre vite; poiché essa è il disastroso e catastrofico retaggio avuto sin dai lontani tempi, in cui ogni cosa era ancora allo stato di fango ed il mondo non era ancora formato.

E' tempo che mi presenti. Non sono né pazzo, né lunatico. Desidero che sappiate questo, onde possiate credere a quello che vi dirò. Mi chiamo Darrel Standing. Qualcuno di voi, leggendo questo mio racconto, sarà in grado di riconoscermi subito. Lasciate tuttavia che faccia la presentazione della mia persona alla maggioranza, che non è tenuta a conoscermi.
Otto anni or sono ero professore di agronomia, al Collegio di Agricoltura dell'Università di California. Molti anni or sono, la piccola e sonnacchiosa città universitaria di Berkeley venne messa a rumore dall'assassinio del prof. Haskell, ucciso in uno dei laboratori del Palazzo delle Miniere.
Sono Darrel Standing. Fui arrestato con le mani ancora lorde di sangue. Non starò qui ora a discutere sulla ragione e il torto, relativamente a questa faccenda del prof. Haskell. Fu una cosa di natura assolutamente privata. Il fatto è che, in un accesso di collera, ossessionato dalla rabbia sanguinaria che mi ha seguito, con la tenacia di una maledizione, in tutte le età, fui indotto ad uccidere il mio collega di insegnamento. Lo dimostrano i verbali del Tribunale, con il quale, una volta tanto, mi trovo d'accordo anch'io.
Ma non è già per questo delitto che sarò appiccato. Per esso fui punito con una sentenza di condanna all'ergastolo. Allora contavo l'eta di trentasei anni. Ora ne ho quarantaquattro. Ho speso questi otto anni di intervallo, in California, nella prigione di State di San Quintino. Cinque, di questi otto anni, li ho passati al buio. Segregazione cellulare, la chiamano. Quei pochi che riescono a sopportaria, la chiamano la morte vivente. Ma in questi cinque anni di morte vivente, ho lavorato per riguadagnare la mia libertà, come ben pochi altri hanno saputo fare. Nonostante fossi il più severamente segregato di tutti i prigionieri, non solo fui in grado di scorrazzare per il mondo, ma anche attraverso il tempo. Coloro che mi murarono per una bazzecola di pochi anni, mi diedero, certo senza volerlo, la possibilità di vivere per il maggior numero di secoli. Indubbiamente, grazie a Ed Morrel, ho vissuto cinque anni vagabondando per le stelle. Ma quella di Ed Morrel e un'altra storia. Ve ne parlero un po' più tardi. Ho tante e tante cose da dire, che non so da dove cominciare.Ebbene, cominciamo. Sono in un distretto del Minnesota. Mia madre era la figliola di un immigrato svedese. Si chiamava Hilda Tonnesson. Il nome di mio padre era Chauncey Standing; egli discendeva da una vecchia famiglia americana. Le sue origini risalgono ad Alfredo Standing, un servo acquistato sul mercato o, se più vi, piace, uno schiavo, che venne trasportato dall'Inghilterra nelle piantagioni della Virginia, ancora prima che il giovane Washington andasse in ricognizione nelle selvagge regioni della Pennsilvania.
Un figlio di Alfredo Standing combattè nella guerra della Rivoluzione; un suo nipote nella guerra del 1812. Da allora, non si ebbe una sola guerra nella quale gli Standing non abbiano preso parte. Io, l'ultimo degli Standing, quanto prima irrimediabilmente defunto, combattei da semplice soldato nella nostra ultima guerra nelle Filippine e per far questo, nella piena maturità della mia carriera, presentai le dimissioni da professore nell'Università di Nebraska. Gran Cielo ! Quando feci quel passo, ero gia stato designato come decano del Collegio di Agricoltura di quella Università. Proprio io, il vagabondo delle stelle, l'avventuriero lordo di sangue, il Caino vagabondo pei secoli, il sacerdote militante dei tempi più remoti, il sognatore della luna e delle epoche ormai dimenticate, che oggi è destinato a passare, inosservato, nella storia degli uomini!
Eccomi dunque, con le mani sporche di rosso, nel Raggio degli Assassini della prigione di Stato di Folsom, in attesa che la burocrazia statale decreti il giorno in cui i servi dello Stato mi conducano via, verso ciò che essi, nella loro maligna illusione, credono sia la tenebra: la tenebra ch'essi temono; la tenebra che cagiona loro delle fantasie paurose e superstiziose; la tenebra che li trascina, tremanti e balbettanti, verso gli altari dei loro dèi antropomorfi, creati unicamente dalla loro paura.
No; non sarò mai decano di alcun collegio di agricoltura. Eppure l'agricoltura la conoscevo; era la mia professione. Ero nato per quella, educato e addestrato a quella; e ne ero un maestro. Essa era il mio genio. Posso dirmi in grado di cogliere, con una sola occhiata, l'esatta percentuale di grasso contenuto nel latte di una vacca, e sfido qualunque esperto a contestare la saggezza dei miei occhi. Solo col guardare un terreno, o addirittura una estensione di terreni, sono in grado di calcolarne le virtù e le possibilità di sfruttamento. Non ho bisogno di reagenti chimici, per riconoscere la natura acida o alcalina del suolo. Ripeto: la tenuta di una fattoria, nella più alta espressione scientifica del termine, era ed è il mio genio. Eppure lo Stato, che comprende tutti i cittadini della nazione, crede di poter cancellare la mia sapienza, condannandomi alla tenebra eterna, per mezso di una corda al collo e la brusca applicazione della legge di gravità; esso crede di poter distruggere una sapienza, che fu incubata attraverso i millenni e ch'era maturata, ancor prima che i pastori nomadi pascolassero i loro greggi sulle praterie di Troia !
Il grano? Chi più di me conosce il grano? Esiste la mia dimostrazione di Wistar, nella quale è evidente che per merito mio, la produzione annuale granaria, per ogni contea dello Stato di Iowa, aumentò di mezzo milione di dollari. Questa è storia. Molti agricoltori, che oggi si permettono il lusso di un'automobile, conoscono bene colui che devono ringraziare per la loro prosperità. Molte fanciulle, dal cuore gentile, e molti ragazzi, dalle chiare sopracciglia, chini sui libri di testo nelle scuole superiori, non si sognano nemmeno che sia stato io a rendere possibile la loro educazione nelle Università, in virtu dei miei esperimenti granari di Wistar.
E la gestione di una fattoria! Io riconosco lo spreco cagionato dal moto superfluo, senza essere costretto a ricorrere ai controlli meccanici, sia che si tratti di lavoro meccanico o di lavoro manuale; e so quale disposizione debbano avere gli edifici e quale ordinamento il lavoro manuale. Esistono le mie note e le mie tavole su questo argomento. Senza alcun dubbio, in questo preciso momento, centinaia e migliaia di fattori stanno consultando, con la massima attenzione, le mie pagine, prima di deporre la pipa per andarsene a letto. Tuttavia, prescindendo dalle mie tavole, non avevo bisogno che di guardare un uomo per conoscere le sue predisposizioni, le sue coordinazioni e l'indice frazionario del suo spreco di moto.

E' necessario che chiuda qui il primo capitolo del mio racconto. Sono le nove; e questo, nel Raggio degli Assassini, vuol dire che ogni più piccola luce è tolta. Proprio in questo memento, odo un rumore soffocato di passi; è la guardia che cammina, con le scarpe di gomma, e viene a rimproverarmi, perchè la lampada ad olio arde ancora.
Come se un semplice vivente avesse il diritto di censurare il condannato a morte!

II.

Mi chiamo Darrel Standing. Fra non molto sarò portato fuori di qui, per essere impiccato. Nel frattempo dirò quello che ho da dire e scriverò, in queste pagine, cose di altri tempi e di altri luoghi.
Dopo la sentenza di condanna, venni a passare il resto della mia «vita naturale», nella prigione di San Quintino. Dimostrai di essere incorreggibile. Gli incorreggibili sono degli esseri terribili, tale, almeno, è il significato della parola « incorreggibile », nella psicologia carceraria. Divenni incorreggibile, poiché aborrivo lo spreco di energie. La prigione, come tutte le prigioni, rappresentava uno scandaloso affronto alla economia delle energie. Mi misero in segreta. La criminalità dello spreco di energie mi irritava. E perché non avrebbe dovuto irritarmi? Eliminare lo sciupio di energie era sempre stata la mia specialità. Prima della invenzione del vapore e delle macchine a vapore, tremila anni prima, ero marcito nelle prigioni di Babilonia; e, credetemi, non dico fandonie, quando affermo che in quei tempi antichi, noi prigionieri, sapevamo tessere molto meglio, con i telai a mano, di quanto non facciano i prigionieri di oggi, con i telai a vapore, installati nei cameroni di San Quintino.
Questo delitto, contro l'economia, era così urtante, che io mi ribellai. Cercai di dimostrare alle guardie una quindicina circa di modi di lavorare diversi. Mi si fece rapporto e fui messo nelle segrete, privo di luce e di vitto. Ne uscii e mi sforzai di lavorare, in mezzo al disordine caotico che regnava nei cameroni dei telai. Mi ribellai. Venni messo in segreta e costretto nella camicia di forza.
Venni malmenato e percosso dalle guardie che, nella loro totalità, possedevano solo quel tanto di intelligenza sufficiente a dimostrare ch'ero diverso da loro, in quanto non ero cosi stupido.
Trascorsero due anni in questa bestiale persecuzione. E’ terribile, per un uomo, essere legato come un salame e morsicato dai topi. Quegli stupidi bruti di guardie, erano dei topi e mi rodevano l'intelligenza, rodevano le sorgenti della mia spiritualità e della coscienza del mio valore. Ed io, che in passato fui un lottatore di eccezione, in questa vita presente non sono assolutamente più in grado di lottare. Fui fattore, agricoltore, professore universitario e schiavo di laboratorio; non trovavo interesse che nella terra e nell'aumento di produttività della terra.

Combattei nelle Filippine, perché il combattere faceva parte delle tradizioni degli Standing. Non avevo alcuna attitudine al combattere. Mi sembrava una cosa così ridicola, quella di introdurre delle micidiali sostanze eterogenee nei corpi di una moltitudine di omuncoli neri. Era ridicolo lo spettacolo della scienza, che prostituiva tutta la potenza dei suoi progressi ed il genio dei suoi inventori, allo scopo di introdurre con violenza delle micidiali sostanze eterogenee nei corpi di quelle moltitudini di omuncoli neri.
Come dicevo, obbedendo alla tradizione degli Standing, andai alla guerra e trovai che non ne avevo alcuna attitudine. La stessa cosa riscontrarono i miei ufficiali, che mi assegnarono le funzioni di scritturale. Fu appunto come scritturale che, seduto ad un tavolo, partecipai alla guerra ispano-americana. >
Non era dunque perché fossi un bellicoso, ma perché ero un pensatore, che mi irritavo per lo spreco di energia che si faceva nei cameroni dei telai, e venni perseguitato dalle guardie, che mi classificarono un «incorreggibile». Ero punito unicamente perché il mio cervello lavorava. Ecco ciò che dissi ad Atherton, quando la mia incorreggibilità divenne così notoria, ch'egli mi chiamò nel suo ufficio privato, per muovermi dei rimproveri.
- Mio caro Atherton, è assurdo pensare che quei miserabili roditori delle vostre guardie possano strapparmi dal cervello quelle cose che, nei mio cervello, sono ormai chiare e definite. Tutta l'organizzazione di questa prigione è stupida. Voi siete un uomo politico. Potrete schermirvi egregiamente nei salotti di San Francisco e fare tante altre cose; ma non sapete come si tesse la iuta. I vostri laboratori sono indietro di cinquant'anni...
Ma perché continuare questa tirata - poiché si tratta di una tirata? Gli dimostrai quanto fosse stupido, ed il risultato fu ch'egli si convinse della mia disperante incorreggibilità.
Date un brutto nome ad un cane... Il resto lo sapete benissimo. Atherton diede la sanzione finale alla appropriazione del mio nome.


Gli uomini intelligenti sono crudeli. Gli uomini stupidi sono mostruosamente crudeli. Le guardie e gli uomini che stavano sopra di me, da Atherton in giù, erano degli stupidi mostri. Ascoltate, e saprete ciò ch'essi mi hanno fatto. In prigione, c'era un poeta, un galeotto; un individuo dal mento debole, dalle larghe sopracciglia; insomma, un poeta degenerato. Era un falsario. Era anche un vigliacco, una spia. Parole singolari, in bocca ad un professore di agronomia; ma un professore di agronomia ha pure il diritto di usarle quando è cacciato in una prigione, per tutto il resto della sua vita naturale.
Il poeta fabbro si chiamava Cecil Winwood. Egli aveva già avuto altre condanne; tuttavia, poiché era un tipo di cane giallo piagnucoloso, la sua ultima condanna era stata soltanto di sedici anni; tempo che una buona condotta avrebbe anche potuto ridurre. Io ero condannato a vita. Tuttavia quel miserabile degenerato, allo scopo di accorciare di diversi anni il periodo della sua detenzione, riuscì ad aggiungere una discreta porzione di eternità al periodo di carcere che dovevo scontare.

Come andò la cosa, lo appresi solo dopo un lungo periodo di tempo, e ve la racconterò con tutti i particolari. Cecil Winwood, allo scopo di cattivarsi il favore del Capitano della Corte, e quindi di Atherton, del direttore delle prigioni, della Corte di Grazia e del Governatore della California, inventò un tentativo di evasione.
Ora considerate tre cose : a) Cecil Winwood era così detestato dai suoi compagni di pena, che questi non gli avrebbero permesso di scommettere un'unghia ad una corsa di cimici, e la corsa delle cimici era un grande sport presso i galeotti; b) io ero il cane al quale era stato imposto un cattivo nome; c) per montare la sua invenzione, Cecil Winwood aveva bisogno di cani dal pessimo nome, di condannati a vita, di disperati, di incorreggibili.
Ma i condannati a vita detestavano Cecil Winwood e, quando egli tentava degli approcci per illustrare il suo, piano di fuga collettiva dalla prigione, lo deridevano voltandogli le spalle, con delle feroci bestemmie. Ma infine riuscì nell'intento, procurandosi la complicità di una quarantina dei più inaspriti. Rinnovò diverse volte i suoi approcci e disse delle possibilità che, in virtù del suò posto di fiducia nell'ufficio di Atherton e della sua qualità di dispensiere, egli aveva nella prigione.
- Vediamo dunque - disse Long Bill Hodge, uno che era stato condannato a vita per un assalto ad un treno, ed il cui animo era da anni teso ad escogitare una evasione, per poter uccidere i complici che avevano deposto contro di lui in giudizio.
Cecil Winwood accettò la prova. Egli dichiarò che, la notte dell'evasione, sarebbe stato in grado di tenere a bada i guardiani.
-Chiacchierare è facile — disse Long Bill Hodge. - Noi vogliamo i fatti. Provate questa sera con una delle guardie. C'è Barnum, che èe una canaglia. Ieri, nel corridoio di Bughouse, pur non essendo di servizio, ha avuto il fegato di sostituire quel furbacchione di Chink. Questa sera è di guardia lui. Provate con lui, e mettetelo fuori combattimento. Fateci vedere, e allora vedremo se sarà il caso di parlare della faccenda.
Tutto questo me lo disse Long Bill Hodge, la prima volta che ne ebbe l'opportunità. Cecil Winwood esitò di fronte allia immediatezza della dimostrazione. Si scusò, dicendo che gli occorreva del tempo per prendere il veleno dalla dispensa. Gli diedero tempo, ed una settimana dopo egli comunicò ch'era pronto. Una quarantina dei più inaspriti fra i condannati a vita, attesero che il guardiano Barnum montasse di turno e si addormentasse. Cosi accadde. Egli venne trovato addormentato e questo gli fruttò il licenziamento.
Naturalmente, ciò convinse i condannati a vita. Ma c'era da convincere anche il direttore. Giorno per giorno Cecil Winwood gli riferiva i progressi del complotto, tutti immaginati e fabbricati nella sua fantasia. Il direttore richiese delle prove.
Cecil Winwood lo accontentò; tutti i particolari di quella faccenda, io non li conobbi se non a distanza di un anno, tanta è la lentezza con la quale trapelano i segreti della prigione.
Winwood disse che i quaranta uomini che facevano parte del complotto e dei quali egli godeva la confidenza, avevano già acquistato tale potere nella prigione, che non era lontano il giorno in cui, per mezzo delle guardie che avevano corrotto, avrebbero potuto introdurre delle pistole automatiche.
-Le prove - deve aver chiesto ancora il direttore.
E il poeta fabbro gli diede le prove. Nel reparto macellai, il lavoro notturno era una cosa normale. Uno dei macellai, un detenuto, faceva parte del primo turno di notte. Era una spia del direttore, e Winwood lo sapeva.
- Questa sera - disse al direttore – Summerface porterà una dozzina di pistole automatiche. In una seconda ripresa porterà le munizioni. Ma questa notte egli mi passerà le pistole nel reparto macellai. Lì abbiamo una buona spia, che domani vi farà il suo rapporto.
Ora, è necessario sapere che Summerface era un tipo di contadino allevato nella contea di Humboldt. Era un semplicione, una pasta d'uomo, che non disdegnava di guadagnarsi onestamente un dollaro, introducendo clandestinamente del tabacco per i detenuti.
Quella sera, tornando da un viaggio a San Francisco, portò seco quindici libbre di tabacco per sigarette. Cosa, questa, che aveva fatto altre volte. Nel reparto macelleria, consegnò la merce a Cecil Winwood; era un grosso e solido pacco di innocente tabacco, avvolto con della carta. La spia, dal suo nascondiglio, vide quando il pacco fu consegnato a Winwood, e riferì in quel senso al direttore la mattina seguente.
Ma nel frattempo, la troppo vivace immaginazione del poeta fabbro andava oltre. Egli si rese colpevole di una pessima azione, che mi procurò cinque anni di segregazione, per cui ora mi trovo costretto a scrivere in questa maledetta cella. E dire che per tanto tempo non seppi nulla di tutto ciò. Non seppi nemmeno del complotto per l’evasione, nel quale erano stati coinvolti quaranta condannati a vita. Non sapevo nulla, assolutamente nulla. E gli altri ne sapevano ben poco. I condannati a vita non sapevano ch'egli li stava attirando in una trappola. Nemmeno il direttore del penitenziario sapeva di aver avuto parte nel tranello. Ma il più innocente di tutti era Summerface. Egli avrebbe potuto tutt'al più avere qualche rimorso di coscienza, per avere introdotto clandestinamente dell'innocuo tabacco.

Ed ora veniamo alla stupida, sciocca e melodrammatica avventura di Cecil Winwood. Il mattino seguente, incontrando il direttore del penitenziario, egli appariva trionfante. La sua immaginazione lo fece andare oltre il necessario.
- Ebbene, la merce è entrata proprio come dicevate voi - rilevò il direttore.
- E ce n'era abbastanza per far saltare fino al cielo la prigione - confermò Winwood.
- Abbastanza di che? - chiese il direttore.
- Dinamite e detonatori - s'affrettò a gracchiare quel cretino. - Venticinque libbre. La vostra spia ha visto Summerface mentre me le consegnava.
Mancò poco che al direttore non venisse un accidente. Ora posso anche comprendere il suo stato d'animo: venticinque libbre di dinamite nella prigione!
Mi dissero poi che il capitano Jamie - era quello il suo nomignolo - fosse caduto a sedere con la testa fra le mani.
- Dov'e ora? — gridò. - La voglio. Portatemici subito.
Allora Cecil Winwood s'accorse del suo errore, e mentì:
- L'ho sotterrata - fu costretto a mentire, poiché trattandosi di tabacco in piccoli pacchetti, esso era gia stato distribuito fra i detenuti, col solito sistema.
- Benissimo - disse il direttore, alzandosi di scatto. - Portatemici subito.
Ma il posto dove egli voleva essere condotto e dove trovavasi sepolto l'alto esplosivo, non esisteva se non nella mente di quel miserabile di Winwood.

In una prigione vasta come quella di San Quintino, vi sono sempre dei posti ove poter nascondere qualche cosa. E poiché Winwood acconsentì a condurre il direttore, bisogna dire che egli avesse pensato rapidamente a qualche fandonia.
Come lo stesso capitano Jamie depose davanti al Consiglio dei direttori, e come attestò anche Winwood, costui, mentre entrambi andavano verso il nascondiglio immaginario, disse che a seppellire la polvere lo avevo aiutato io.
Ed io, che avevo appena scontato cinque giorni di segreta e otto ore di camicia di forza; io, che ero troppo debole per lavorare nei cameroni dei telai, ed anche gli stupidi carcerieri potevano constatarlo; io, che avevo avuto un giorno di riposo per rimettermi da una punizione troppo terribile, proprio io, venni indicato da quel mascalzone, come colui che lo aveva aiutato a nascondere le inesistenti venticinque libbre di alto esplosivo!
Winwood condusse il direttore al preteso nascondiglio e naturalmente la dinamite non fu trovata.
Winwood mentì ancora.
- Dio mio! Standing mi ha giocato. L'ha dissotterrata e l'ha messa altro-ve.
Il direttore espresse la sua preoccupazione, con delle frasi ben più espressive di un semplice «Dio mio!». Dietro lo stimolo del moemento, ma nello stesso tempo con molto sangue freddo, portò Winwood nel suo ufficio privato e lo picchiò spaventosamente: tutte queste cose vennero alla luce davanti al Consiglio dei direttori. Ma questo avvenne dopo. Nel frattempo Winwood, anche dopo essere stato picchiato, giurò sulla verità di quanto aveva detto.
Cosa doveva fare il capitano Jamie? Egli era convinto ormai che nella prigione c'erano venticinque libbre di dinamite e che quaranta ergastolani, disperati, erano pronti a tentare un'evasione. Fece venire davanti a se Summerface, e quantunque questi insistesse nell'affermare che il pacco conteneva tabacco, Winwood giurò ch'era dinamite, e fu creduto.

E a questo punto del dramma che io entro o, per dir meglio, ne esco, poiché venni portato via, lontano dalla luce del sole e da quella del giorno, nelle segrete; e nelle segrete, in una cella solitaria, rimasi a marcire per cinque anni, privo del sole e della luce del giorno.
Non sapevo cosa pensare. Ero appena ritornato dalle segrete e me ne stavo sdraiato nella mia branda, tutto dolorante, quando mi riportarono nella segreta.
- Ora - disse Winwood al capitano Jamie - quantunque non sappiamo dove si trovi, la dinamite è innocua. Standing è l'unico uomo che lo sappia, e nella segreta non gli è certo possibile comunicare con alcuno. I prigionieri sono pronti per l'evasrone e potremo prenderli con le mani nel sacco. Sono io che devo dire quando è tempo. Dirò loro che è stabilito per le due di questa notte e che, una volta narcotizzate le guardie, aprirò le celle e distribuirò loro le pistole. Se alle due di questa notte non sorprenderete quei quaranta uomini che vi ho nominato, completamente vestiti e ben svegli, allora, signor capitano, potrete mettermi in segregazione per tutto il tempo che mi rimane da passare qui. Una volta che Standing e quei quaranta saranno al sicuro nelle segrete, noi avremo tutto il tempo possibile ed immaginabile per scovare il nascondiglio della dinamite.
- Quand'anche dovessimo demolire la prigione, una pietra dopo l'altra - aggiunse energicamente il direttore.

Questo accadde sei anni fa. In tutto il tempo che è trascorso da allora, essi non hanno potuto trovare l'inesistente esplosivo, nonostante abbiano messo sossopra la prigione un migliaio di volte. Nondimeno, fino all'ultimo giorno in cui rimase in carica, il capitano Jamie credette alla esistenza di quella dinamite. Il capitano Jamie, che è tuttora direttore del penitenziario, crede anche oggi che la dinamite si trovi nascosta in qualche punto della prigione. Anche ieri egli fece tutta la strada da San Quintino a Folsom, perchè gli rivelassi il nascondiglio. So che, fino a quando non mi avranno definitivamente eliminato, egli non potrà più respirare a suo agio. [...]
I DISCS di Marcel Duchamp, uno dei sei episodi cinematografici del film di Hans Richter del 1946 "Dreams That Money Can Buy" (I sogni che il denaro può comprare), con musica John Cage.

Il testo riporta le prime pagine del romanzo Il vagabondo delle stelle (The star rover), traduzione dall'inglese di Tullo Tulli, editrice Sonzogno, Milano 1952 (ristampa steretipa del 1931).
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